SUPERARE LE TENSIONI SPECULATIVE NEL FOTOVOLTAICO IN SICILIA
In Sicilia le tensioni fra impianti fotovoltaici, agricoltura e Paesaggio sembrano ascriversi a comportamenti quantomeno irruenti delle grandi imprese, agevolati dall’acquiescenza degli organi di controllo politico e di quelli gestionali della Regione Siciliana. Acquiescenza dovuta ad ignavia o altro e che si riverbera nei territori, mancando di sostenere quei Comuni che intervengono a tutela e “facilitando”, invece, quegli altri Comuni che trovano più agevole addivenire alle molto discutibili pretese delle multinazionali. I numeri, però, sia delle produzioni di energia che delle superfici disponibili agli impianti, sembrano suggerire altro, ovvero come in un processo governato i target prefissati potrebbero essere raggiunti senza intaccare il patrimonio produttivo e, tantomeno, quel Paesaggio che è fra i caratteri fondanti della Repubblica Italiana. Il D.L. 77/2021, infine, statuisce quali impianti possono essere definiti “agro-fotovoltaici”, ponendo fine a impieghi strumentali e speculativi del termine – (im) puro greenwashing – e fornendo, in definitiva, uno strumento prezioso per avviare con chiarezza la distinzione fra impianti industriali “a terra” e impianti che possono essere collocati in area dove si svolge attività agricola.
Agro – voltaico e fotovoltaico Sicilia.
La produzione di energia in Agricoltura secondo norme vigenti
Impianto e definizione di Agro- fotovoltaico: il D.L. 77/2021.
Il fotovoltaico e la Regione Siciliana.
Agro – voltaico e fotovoltaico Sicilia: le ambiguità
In Sicilia risultano 50.000 impianti di piccola scala (850.000 in Italia). Il PEARS – Piano Energia Ambiente della Regione Siciliana prevede 1.100 MW “a terra”, pari allo 0,06% del territorio regionale, assimilabile ad un quadrato di lato pari a 4,5 km. Il Piano prevede che metà di questa superficie venga collocata in cave a fine vita e in siti industriali dismessi. I terreni agricoli potrebbero ospitare la quota restante mediante il “vero” agrovoltaico – quello finalmente definito dal D.L. 77/2021 – tanto che il PNRR ha destinato a questa modalità impiantistica 1,1 miliardi di euro. Tuttavia, nelle ambiguità del Piano, fra le omissioni di una politica che non controlla e dell’area gestionale come sempre pronta e prona alle richieste imprenditoriali, le imprese collocano – o provano a collocare – gli impianti a terra dove fa loro più comodo e dove trovano scarse resistenze alla vendita o alla locazione, ovvero nei terreni agricoli ubicati vicino alle cabine di trasformazione.
Gli agricoltori in crisi cedono facilmente alle offerte di affitto o acquisto e le imprese mettono in atto operazioni di greenwashing mediante “compensazioni” o spacciando per agro – voltaico impianti che non lo sono, con altrettanto facile presa su amministrazioni locali impreparate o, peggio, contigue. Al momento, il Piano non tutela né l’agricoltura, né il Paesaggio, né quei Comuni, né quelle comunità che su questo fronte meritoriamente si impegnano. Quel Paesaggio che è principio fondamentale immodificabile della Repubblica Italiana, citato come tale nella Costituzione all’art. 9 che testualmente recita: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Quel Paesaggio oggetto di tutela del DLGS 42/2004 – Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici – che è connesso alla identità dei luoghi e delle persone, ovvero alla cultura profonda delle comunità, le cui modifiche se di lunga durata sono da considerare irreversibili. In definitiva, i numeri mostrano che la dicotomia fra Paesaggio e Fotovoltaico non dovrebbe esistere se non fosse che, come spesso accade nella nostra Regione, la Sindrome di Stoccolma, in certi casi alimentata da meccanismi prosaici, apre la strada a quella colonizzazione che troppe volte si combatte solo a parole.
Dal Land grabbing al Landscape grabbing.
Dalla sottrazione delle terre a quella dell’identità dei luoghi e delle persone
Il Land grabbing. Oggi è frequente imbattersi nell’espressione Land grabbing, il cui significato è ormai noto a tanti. Si può tradurre in “accaparramento della terra” (ma per qualcuno furto) ed è quel fenomeno per il quale la proprietà delle terre cambia di mano per processi di cosiddetta “valorizzazione” economica e che, dopo aver determinato lo spossessamento dai proprietari originari, finisce per essere causa o concausa di imponenti movimenti migratori. È altresì noto che sono sempre più numerosi i Paesi che si stanno appropriando delle terre del Centro Africa per la produzione di derrate alimentare rivolte al loro mercato interno come al commercio mondiale.
Il Landscape grabbing. Il Land grabbing dà luogo a profonde modifiche del paesaggio, ovvero a fenomeni che oggi vengono definiti dagli studiosi con l’espressione Landscape grabbing. In questo ultimo caso “La popolazione – benché continui a essere formalmente proprietaria di case e terre – subisce cambiamenti significativi nei propri luoghi di vita, smarrimento di senso e valori legati al paesaggio, perdita di identità e sovranità territoriale. La mistificazione, l’espropriazione e la trasformazione del paesaggio, prodotte dai processi di industrializzazione e urbanizzazione, a causa della globalizzazione neoliberista, si diffondono a una velocità sbalorditiva e in maniera pervasiva.” [neretti di chi scrive]. Scrivono così i due ricercatori italiani Margherita Ciervo e Claudio Cerreti, che aggiungono una dichiarazione quanto mai degna di particolare attenzione: “L’accaparramento del paesaggio priva le comunità non solo di valori economici, ma le rende progressivamente estranee ai loro spazi di vita.”.
Recovery Fund e rischio colonizzazione. Si tratta, insomma, di un fenomeno devastante, una nuova modalità di colonizzazione dagli effetti spesso irreversibili. Tutt’altro che limitato al continente africano, gli studiosi ne denotano la crescente diffusione anche nelle contrade europee e innalzano un grido di allarme sul pericolo rappresentato dalla combinazione di due fattori. Da una parte, i cospicui finanziamenti del Recovery Fund nei confronti di attività che senza adeguato controllo possono alterare profondamente il paesaggio ovvero l’identità dei luoghi e delle persone, tra questi la produzione di energia dal fotovoltaico; dall’altra, la sottovalutazione del fenomeno del landscape grabbing da parte di amministrazioni locali culturalmente deboli, impreparate, talvolta cointeressate, che finiscono per favorire l’insediamento di impianti in grado di modificare luoghi, storie e popolazioni in maniera permanente.
Health grabbing in Sicilia. Oggi la sfida per chi ama e tutela l’ambiente, e inscindibili da esso, le persone, è quella di affiancare i livelli decisionali e le burocrazie al fine di pervenire a linee guida idonee alla massima diffusione degli impianti delle energie pulite, senza provocare ulteriori devastazioni ambientali. Fatte le debite proporzioni, non vorremmo che dopo la colonizzazione degli anni ’60 che determinò quell’Health grabbing che dura tutt’ora, (la sottrazione della salute nell’area industriale di Augusta – Priolo – Melilli – Siracusa, ma anche altrove), la Sicilia divenisse la regina nera della nuova espropriazione della identità di luoghi e persone che porta il nome di Landscape grabbing.
Fotovoltaico e Landscape grabbing in Sicilia ovvero “lo scambio delle perline“. Si deve aggiungere che similmente al Land Grabbing, il Landscape grabbing provoca l’espulsione degli abitanti o lo straniamento nei loro luoghi, anche se il secondo, diversamente dal primo, non ha luogo con la violenza, bensì con l’accordo volontario fra agricoltori e imprese per l’affitto a lungo termine o per l’acquisto dei terreni agricoli, in ogni caso con canoni e prezzi molto più elevati rispetto al mercato ordinario che coinvolge questi beni. Nei nostri giorni è questo il caso degli impianti fotovoltaici, che nelle lacunose maglie del PEARS le imprese piazzano dove meglio risulta per loro, scaricando i costi sociali sulle Comunità, tentando di farsi avanti a colpi di compensazioni, un meccanismo perverso che in più di un caso ricorda alla mente lo scambio delle perline fra conquistadores e nativi.
Aspetti normativi della produzione di energie rinnovaili in Agricoltura
Rinnovabili e Codice Civile. La produzione di energia in agricoltura, da biomasse o da fotovoltaico, rientra fra le attività connesse a quella agricola, essendo attività agricole connesse quelle previste dal codice civile (art. 2135) e con i limiti della legge del 2010 e successive. In base ad esse, non debbono essere superati i limiti di potenza di 260.000 kWh per anno. Ciò, secondo l’art. 1, comma 910 della L. 208/2015, legge di stabilità per il 2016 (che ha reso definitivo quanto già disposto in modo transitorio per i due esercizi precedenti, dall’art. 22 comma 1 bis del D.l. nr. 66 del 2014). L’intero impianto normativo è però in continua ed effervescente mutazione, volta a favorire con ogni mezzo le produzioni di energia da rinnovabili. In questo corpus di norme non risulta sia stato utilizzato il termine “agri- voltaico”, ovvero non sono stati configurati requisiti strutturali in base ai quali gli impianti fotovoltaici possono essere collocati nell’azienda agricola. D’altro canto, sembrano bastare allo scopo i limiti di potenza.
La serra fotovoltaica. Sarà interessante e utile notare che soltanto, e finalmente, nel D.M. 5 luglio 2012 si troverà la definizione di serra fotovoltaica, identificata come “struttura di altezza minima di 2 metri, nella quale i moduli fotovoltaici costituiscono gli elementi costruttivi della copertura” [il neretto è di chi scrive]. Un precedente che oggi si rivelerà particolarmente utile nel configurare quanto stabilito dal D.L. 77/2021, ove appare definito con chiarezza “impianto agro – fotovoltaico”.
Impianti a terra e impianti integrati. Tradizionalmente, infatti, gli impianti fotovoltaici si distinguevano, nei fatti e a livello normativo, in “impianti a terra”, ovvero con moduli ridotta distanza dal suolo, ed “impianti integrati”, montati sui tetti o sulle serre agricole. Già da principio, gli impianti integrati, ed in particolare le serre nel contesto agricolo, sono stati visti con favore ed incentivati. La maggior parte degli impianti “al suolo” ha una altezza non superiore a 1 m da terra, con connessi fenomeni di riscaldamento del suolo.
Il Fotovoltaico industriale
I numeri mostrano che è necessario aumentare le grandi produzioni di fotovoltaico, cosa che si può ottenere con i campi industriali, ovvero volti alla produzione di beni e servizi che esuberano dall’attività agricola (anche “attività industriale” è un termine definito dal Codice Civile).
Gli impianti industriali non possono essere che quelli la cui produzione di energia costituisce il core business; produzione che risulta pertanto slegata dall’attività agricola, esuberando di gran lunga i limiti previsti per quegli impianti di taglia minore che, come già visto, costituiscono “attività connessa” ai sensi dell’art. 2135 CC.
Dal punto di vista costruttivo, come previsto dall’art. 2 del D.M. 19.2.2007 e dall’art. 20 del D.M. 6.8.2010, “gli impianti a terra” ovvero “con moduli ubicati al suolo” vengono individuati e definiti come quelli “i cui moduli hanno una distanza minima da terra inferiore ai due metri”. Tale definizione, individuata a fini incentivanti nel periodo dei “conti energia”, non sembra sia stata superata o modificata da nessuna fonte regolamentare o legislativa successiva e risulta data per valida e acquisita ovunque e ogni volta che da allora si parla di “impianti a terra” a qualsiasi fine.
Gli impianti a terra vengono da sempre considerati negativamente a causa del consumo del suolo che comportano, poiché lo sottraggono all’uso agricolo. Per questo motivo, ed in particolare per effetto dell’art. 65 del D.L. n. 1/2012, gli impianti “a terra” sono stati esclusi dagli incentivi statali per il fotovoltaico, prima ancora che questi incentivi cessassero di esistere.
Il destino degli impianti “a terra” è quello della produzione di grandi quantità di energia destinate alla vendita, dando luogo in tal modo ad attività commerciale industriale e come tale non dovrebbero essere collocabili in terreni classificati – ed utilizzati – come agricoli, per di più se di pregio paesaggistico. Con l’agricoltura non hanno nulla a che vedere, ma la questione degli impianti fotovoltaici in terreni agricoli senza cambio di destinazione urbanistica apre scenari che, per quanto controversi, al momento, non portano a nulla, trattandosi di frutto di impianto normativo consolidato che, però, andrebbe accuratamente contestato e smantellato.
Impianto e definizione di Agro- fotovoltaico: il D.L. 77/2021
I termini agro-voltaico, agro-fotovoltaico vengono oggi utilizzati sempre più spesso e troppe volte con evidenti obiettivi di greenwashing. Diviene pertanto obbligatorio chiudere definitivamente la partita con le ambiguità che hanno contornato l’uso del termine agro – fotovoltaico.
Il D.L. 77/2021 è stato convertito nella L. 108/2021, definita governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure.
Finalmente, all’art. 31, comma 5, viene introdotta la definizione di impianto agro-fotovoltaico, che per le sue caratteristiche utili a coniugare la produzione agricola con la produzione di energia green, è ammesso a beneficiare delle premialità statali.
Gli impianti agro-fotovoltaici sono impianti che “adottino soluzioni integrative innovative con montaggio di moduli elevati da terra, anche prevedendo la rotazione dei moduli stessi, comunque in modo da non compromettere la continuità delle attività di coltivazione agricola e pastorale, anche consentendo l’applicazione di strumenti di agricoltura digitale e di precisione” [i neretti sono di chi scrive].
Del tutto non secondario, ai sensi della succitata legge, gli impianti devono essere dotati di “sistemi di monitoraggio che consentano di verificare l’impatto sulle colture, il risparmio idrico, la produttività agricola per le diverse tipologie di colture e la continuità delle attività delle aziende agricole interessate.”
Tale definizione imprime al settore un preciso indirizzo programmatico e favorisce la diffusione del modello agro-fotovoltaico con moduli elevati da terra che consente la coltivazione delle intere superfici interessate dall’impianto, in altri termini la totale compresenza di coltura e di pannelli elevati dal suolo [i neretti di chi scrive].
Dunque, e contrariamente da quanto artatamente sostenuto da alcune imprese, gli impianti “a terra” non sono definibili “agrivoltaico”, in quanto non sono né attività agricole, né attività ad esse “connesse”, ai sensi dell’art. 2135 del Codice Civile. Né consentono l’esercizio agricolo sulla intera superficie agraria. Gli impianti “a terra”, proprio per il loro carattere industriale, oltrepassano grandemente i limiti di potenza di 260.000 kWh per anno previsti dall’art. 1, comma 910 della L. 208/2015, legge di stabilità per il 2016 (che ha reso definitivo quanto già disposto in modo transitorio per i due esercizi precedenti, dall’art. 22 comma 1 bis del D.l. nr. 66 del 2014).
Con riguardo alla altezza dei pannelli negli impianti agro-fotovoltaici, nella norma non si rinviene un riferimento puntuale all’altezza di elevazione dei pannelli da terra idonea a consentire la pratica agricola. Non resta dunque che leggere tale norma insieme alla normativa storica, e tuttora attuale nella sostanza, che ha definito questo settore in Italia. In analogia con l’impianto integrato mediante pannelli sul tetto delle serre, ci si può riferire a un limite in altezza non inferiore a 2 metri da terra. Poiché la norma esplicitamente si riferisce alla coltivazione della intera superficie interessata dall’impianto, esperienze in corso e collaudate nel nostro Paese riferiscono di altezze ottimali delle strutture pari a circa 3 metri con altezza minima da terra (a inclinazione massima del modulo montato su tracker) di circa 2,4 metri. Tale altezza permette la coltivazione delle intere superfici interessate dall’impianto e la gestione del campo con le consuete pratiche e macchine agricole.
Il fotovoltaico e la Regione Siciliana
Il PEARS Piano Energetico Regionale Sicilia nella formulazione attuale manca di individuare le aree non idonee. Né sono presenti ripartizioni territoriali, ragione per la quale un Comune può essere aggredito per l’intera sua superficie. La Sicilia, peraltro, attira non solo per l’insolazione, ma anche perché è ancora in vigore un decreto presidenziale del 2012 che prevede che ogni impresa presenti una lettera di patronage con la quale una banca dichiara la capacità finanziaria della società di portare a compimento l’opera, pur se dotata di capitale minimo.
Al momento, le imprese si rivolgono agli agricoltori perché essi rappresentano l’anello debole del sistema, pronti ad affittare o a vendere a causa delle difficoltà che il settore affronta in ogni comparto, dai costi di produzione all’andamento del mercato alle difficoltà di approvvigionamento, in particolare dell’acqua irrigua specie nelle aree consortili.
Favorisce l’aggressione ai terreni produttivi la stranezza di una “dichiarazione di pubblica utilità” contenuta nelle norme generali di riferimento, che consente la collocazione degli impianti in zona agricola senza cambio di destinazione urbanistica, fattore che comporta la non trascurabile conseguenza di evitare ogni intervento partecipativo dei Comuni e delle comunità nella collocazione in ambito comunale, circostanza che consente di aggirare quella partecipazione cui si riferiscono la Convenzione di Aarhus (1999), ratificata con legge 108 /2001 e segg..
Le imprese dovrebbero orientarsi sulle cave, sulle miniere, iter certamente più complesso e avvertito come defatigante, specie se ancora da bonificare; se tutt’ora in esercizio o in corso di validità, esse valgono ben più dell’azienda agricola coltivata estensivamente e facile preda di allettanti offerte di acquisto. Le imprese, in ogni caso, ambiscono i terreni (agricoli) vicini alla rete, non cave idonee allo scopo, ma ubicate a distanza dalla rete stessa.
I progetti e le realizzazioni attuali, per la maggior parte sono a 1 metro da terra, dunque tutt’altro che agrovoltaici, in quanto non può essere condotta la contemporanea coltivazione del terreno secondo criteri ordinari e per la sua intera estensione.
Anche la Commissione Tecnico Scientifica per le valutazioni ambientali a guida del prof. Aurelio Angelini ha sottolineato come il PEARS manchi di mappature degli impianti esistenti e dei siti che possono ospitarli, cave dismesse comprese.
Alcune indicazioni della Commissione su dove non collocare impianti (servirebbe la relazione della Commissione):
- siti inseriti nella lista del patrimonio Unesco e le relative aree cuscinetto;
- zone collinari e montane che si trovano all’interno di coni visuali i cui panorami sono legati alla storia e all’attrattività dei luoghi;
- zone in prossimità di parchi archeologici e aree di interesse culturale alle aree naturali protette;
- dalle zone umide di importanza internazionali;
- zone che fanno parte della Rete Natura 2000;
- luoghi tutelati dai Piani paesaggistici provinciali;
- aree importanti da un punto di vista ornitologico;
- aree importanti per la conservazione della biodiversità;
- i geositi;
- i borghi e i paesaggi rurali;
- produzioni agricole biologiche;
- produzioni agricole a marchio: Dop, Igp, Stg, Doc, Docg;
- aree interessate da dissesto o comunque a rischio idrogeologico.
Considerazioni e prospettive
La Sicilia è oggetto di forte interesse da parte delle imprese anche multinazionali che operano nel campo del fotovoltaico. Oltre ai comprensibili fattori climatici, è la Regione Siciliana a fornire particolari facilitazioni, come la lettera di patronage che rilasciata da una banca pone le imprese a ridottissimo capitale sociale in condizioni di presentare le richieste. Né vengono indicate le aree dove non collocare gli impianti, pur sussistendo un cospicuo elenco redatto dalla Commissione Tecnico Scientifica, e nemmeno forniti ai Comuni strumenti idonei ad evitare che un intero territorio comunale venga coperto dai pannelli. Inoltre, la sorprendente dichiarazione di pubblica utilità per questi impianti consente di evitare la variazione urbanistica dei terreni e, in tal modo, consente di eludere i meccanismi della partecipazione sanciti dalla convenzione di Aarhus (1999) ratificata con legge 108 /2001. Nel vuoto di norme e regolamenti le imprese finiscono per posizionarsi dove più ad esse conviene, senza rispetto – se non di maniera – verso quel Paesaggio che è elemento costitutivo della Costituzione Italiana. Le imprese possono e debbono essere condotte a collocare gli impianti industriali in aree non agricole e, comunque, non di pregio paesaggistico; mentre, nelle aree agricole debbono essere installati soltanto impianti agro-fotovoltaici come da definizione ex D.L. 77/2021.
Poiché il vuoto viene riempito come sempre … da chi lo sa riempire, il Dipartimento Energia della Regione Siciliana dovrebbe portare al più presto in approvazione, in Giunta Regionale, il Piano Energetico Regionale, così come riformato (dallo scorso giugno 2021) dal Comitato Tecnico Scientifico, e nella cui proposta vengono stabilite le aree idonee e non idonee e le limitazioni sul cumulo e il consumo di suolo.
Occorrerebbe, inoltre, mettere in atto una strategia volta alla diffusione delle comunità energetiche anche fra le aziende agricole; mentre, andrebbe valutata la possibilità di attuare facilitazioni per la collocazione di pannelli su tetti di abitazioni, magazzini, capannoni, ancorché in difetto urbanistico, purché non comporti ipotesi di demolizione del fabbricato.
In definitiva, eliminare l’inaccettabile e ingiustificata dicotomia, se non per fini speculativi, fra impianti fotovoltaici, Paesaggio e Agricoltura è atto dovuto da parte di una Regione Siciliana che deve risolvere la vera dicotomia fra atteggiamenti di affermazione della autonomia regionale e comportamenti subalterni che vanno in indirizzo contrario